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Medicina umana, Testimonianza di Don Giorgio Giovanelli

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Ester80
view post Posted on 26/4/2014, 11:37




Cari tutti, con piacere pubblico la testimonianza di Don Giorgio Giovanelli, bioeticista, sul rapporto tra medicina e Umanità, prima ancora che tra scienza e Fede.

In attesa delle note a margine dell'autore, ecco il testo che vi sottopongo.
Leggetelo con calma ed attenzione, perché merita!

PER UNA MEDICINA E CHIRURGIA PIU’ UMANE



di Don Giorgio Giovanelli
Delegato episcopale per la Bioetica per la Diocesi di Fano

.

Samaritain



Il tema affidatomi non tratta di un aspetto specifico, tecnico della chirurgia; a ben guardare, però, esso costituisce l’humus, il background necessario su cui, poi, far crescere la professione medica.

Verso la metà degli anni Novanta un gruppo internazionale di esperti (1) in varie discipline mediche si interrogò su quali dovessero essere gli obiettivi della medicina. Tale gruppo arrivò alla conclusione che, per molto tempo, furono considerate primarie e fondamentali le capacità tecniche e diagnostiche ma essi notavano che, già in quegli anni, stava emergendo la consapevolezza di un’ulteriore esigenza; una terza abilità come essi la chiamarono, da considerarsi ugualmente importante.

Benjamin, nel 1984, notava che, per centinaia di anni, il kit del medico fu costituito ‘dalla lama e dalla parola(2) ma quest’ultimo non aveva visto uno sviluppo vigoroso come l’altro (3). Grant sottolineò la necessità, fin dai tempi della formazione accademica, dell’acquisizione da parte del medico di abilità umana (4) così che si potesse rispondere, con più sensibilità e perizia, anche ai bisogni emotivi della persona.

Sebbene, infatti, disponiamo di un’ampia gamma di trattamenti terapeutici che consentono di curare le principali patologie vi sono, però, molte situazioni nelle quali non possiamo rispondere con trattamenti veloci, senza dolori e di successo. Questa considerazione ci riporta, per esempio, a tutte quelle realtà in cui i pazienti si trovano ad affrontare serie situazioni oncologiche, cardiopatie maggiori, patologie psichiatriche, solo per fare alcuni esempi. In tali situazioni i rimedi proposti, spesso, causano le sofferenze degli side effects; rimedi che in se stessi, pur essendo terapeutici, richiedono ingenti sforzi, in termini di sofferenza, nel paziente e che, spesso, causano in lui un autentico terrore, un vehemens horror come lo chiamavano gli antichi.
Vincent sottolinea (5), in merito, che il rapido incremento di pazienti afferenti alle medicine alternative mette in evidenza come si preferisca ‘la consolazione della gentilezza all’asprezza fisica e psicologica della moderna medicina(6).

Tali studi portano a considerare la presenza di un incrementato bisogno che i medici siano in grado di capire e rispondere ad una grande varietà di emozioni che sono presenti nei loro pazienti; altri hanno inoltre sostenuto che lo studio delle medical humanities potrebbe essere un mezzo con cui ottenere dei medici più empatici ed efficaci (7).

san_giuseppe_moscati


Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime gementi, che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista. Siate in gaudio, perché molta sarà la vostra mercede; ma dovrete dare esempio a chi vi circonda della vostra elevazione a Dio. Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità.(San Giuseppe Moscati)



Le riflessioni fatte sono confermate da un ulteriore dato: il bene della salute è, ovviamente, considerato un bene primario all’interno della nostra società ma, nonostante questo, la qualità percepita dai cittadini circa il nostro sistema sanitario è agli ultimi posti in Europa (8) come alta è l’insoddisfazione del personale sanitario. Gli operatori, sottolinea Dei Tos, sono consapevoli che la qualità oggettiva della tecnologia e della perizia medica può tranquillamente confrontarsi con quella degli altri Paesi sia europei che nord americani. Perché, allora, tale gap tra la percezione della realtà e la realtà stessa?

Per rispondere a questa domanda mi piace citarvi quanto Collier et al esprimevano in un loro articolo pubblicato sull’Oxford handbook of clinical spècialties:

Quando noi studiamo, leggiamo da soli e per piacere non nascondiamo nulla di noi
stessi. Nelle nostre aule di consulenza, nei reparti facciamo del nostro meglio per
nascondere tutto sotto il camice bianco (…). Così, il distacco professionale è ciò a cui si
è giunti dopo tutti questi anni in cui ci siamo abituati alle manie, agli errori e ai dissensi
dei nostri pazienti. È nel punto in cui la medicina e l’arte collidono che i medici
possono ricollegare se stessi all’umanità e risentire quelle emozioni che motivano o
terrorizzano i nostri pazienti (…). Ogni contatto con i pazienti ha una dimensione
artistica ed etica non di meno di quella tecnica
(9).



Tornando alla domanda prima posta ci rendiamo conto che la risposta è complessa ma, nel tentativo di essa, ci accorgiamo che il nodo cruciale del problema sta nella dissociazione fra l’intensità e la qualità tecnologica della medicina erogata e l’attenzione ai bisogni complessi della persona che, ad un certo punto della sua esistenza, incontra il dramma della malattia (10). Si tratta, in altri termini, di recuperare l’approccio olistico dell’uomo nella consapevolezza, come afferma Spaemann (11), che le persone sono un qualcuno e non un qualcosa e che non solo i pazienti sono persone ma anche i medici.

Il tema dell’umanizzazione non può, infatti, riguardare solamente la realtà degli ospedali; essa tocca ogni ambito dell’esistenza umana e si estende ad ogni relazione e struttura della società civile.

Andando sempre più verso il cuore della questione ci chiediamo: cosa vuol dire umanizzare?
Faccio pienamente mia l’opinione di Dei Tos quando afferma che “umanizzare significa assumere il punto di osservazione della persona e, nel settore specifico delle cure, mettere al centro di ogni processo l’interesse della persona malata(12). L’umanizzazione non può essere ridotta ad un mero buonismo; essa non è un codice di buone maniere ma piuttosto l’offrire una risposta che contemperi tutti i bisogni del malato compresi quelli che la tecnica medica non può, da sola, raggiungere. Il malato, così, non sarà solo un organismo patologico bensì il centro e la finalità dell’agire del medico e non solo del medico.
Il termine umanizzazione riconduce a ciò che qualifica la persona, ossia la sua dignità. Essa è il proprium dell’umano ed è costante richiamo di esigenza di rispetto, di tutela e di promozione. Se l’umanizzazione è il riconoscimento di tale ambito all’interno di una visione globale dell’uomo e della medicina, la disumanizzazione consiste proprio nel contrario: nel non riconoscimento di tale dignità. Ci rendiamo allora conto che l’umanizzazione nella medicina apre la relazione medico-paziente verso una prospettiva globale ponendo il medico ed il paziente l’uno di fronte alla dignità e grandezza antropologica dell’altro. L’umanizzazione conduce a far sì che la nostra azione si commisuri alla grandezza dell’uomo come essere che vive la propria singolarità, la propria irripetibilità antropologica.
Umanizzare significa, poi, dare proporzioni di umanità al nostro agire. L’umanizzare si esprime così nel rispetto incondizionato della persona indipendentemente dai ruoli che assume o dalle situazioni che vive. Si tratta di una profonda conversione nella relazione medico-paziente da considerare sia dalla parte del paziente ma anche dalla parte del medico. Diversi studi propongono, in relazione a questo obiettivo, l’assunzione di un nuovo modello, il modello della medicina narrativa.
Un modello, come lo definisce Rita Charon (13) che conia il neologismo, di empatia, riflessione, professione e verità. Un modello, nell’intenzioni dell’autrice, che consente di raggiungere quattro situazioni:
quella relativa al medico-paziente;
quella relativa al medico in se stesso;
quella relativa al medico ed ai suoi colleghi;
quella relativa ai medici e alla società.

La Charon sottolinea come le persone malate hanno bisogno di medici che possano capirle nei loro disagi, trattare i loro problemi e accompagnarli nelle loro sofferenze. Nonostante il brillante progresso delle capacità tecniche e diagnostiche il medico, a volte, manca della capacità di cogliere la totalità del dramma del paziente, di vivere empaticamente con coloro che soffrono e di giocarsi fino in fondo con il paziente nella sua malattia. La sola competenza tecnologica e scientifica non può aiutare il paziente ad affrontare la situazione di malattia né tanto meno aiutarlo nel trovare un possibile senso della sua sofferenza. Tale capacità può essere acquisita tramite un modello narrativo di medicina che altro non è che un modello in cui l’essere umano utilizza tutte le capacità necessarie per ‘assorbire, interpretare e rispondere’ alla storia dei nostri pazienti. In quanto modello di pratica medica la medicina narrativa propone un ideale di cure e offre gli strumenti concettuali e pratici per giungere a tale obiettivo. La medina narrativa, che fa parte delle medical humanities, offre gli strumenti per implementare l’efficacia del lavoro del medico verso i quattro ambiti di cui prima parlavamo. Si tratta di una svolta nell’impostazione del nostro lavoro.

La medicina narrativa conduce il medico a cogliere e capire il significate delle storie umane che gli si presentano attraverso l’impiego non solo della sua perizia scientifica ma anche attraverso l’impiego delle sue risorse cognitive e affettive.

Quando, infatti, un paziente incontra un medico nasce una storia e una storia, quella del paziente, è raccontata dalla narrazione che il paziente fa attraverso le sue parole, la sua gestualità, i suoi silenzi e in questa storia non si ha solo il contesto anamnestico ma anche le paure, le speranze e tutto che è implicato con esse. Come in psicoanalisi, nella pratica medica la narrazione della storia del paziente è un fondamentale atto terapeutico. Il medico, nell’ascolto della storia, entra in tale vissuto, si immagina le situazioni, coglie le contraddittorietà. L’ascolto profondo del paziente e l’intima disposizione verso esso consente al medico di stabilire l’alleanza terapeutica e di procedere verso gli atti medici necessari in una situazione di vera empatia e vicinanza verso colui che si affida alle sue mani. Questo consentirà di far percepire al paziente ciò che va sotto il nome di Care che non corrisponde in tutto con il Cure. Nel Care troviamo, infatti, il Cure ma non sempre vero è il contrario.

SALVACAO


Gesù e l'emorroissa.
Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò.
Gesù disse: "Chi mi ha toccato?". Mentre tutti negavano, Pietro disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia".
Ma Gesù disse: "Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me".
Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l'aveva toccato, e come era stata subito guarita.
Egli le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata, và in pace!".



Attraverso tale sano coinvolgimento nella vita del paziente il medico non solo coglie meglio l’altro ma può coltivare in se stesso l’affermazione e la crescita della sua forza e fortezza; l’accettazione della condizione umana, la familiarità con la sofferenza e la capacità di dimenticare e di essere dimenticato, nel senso sano del termine. Gli operatori possono cosi valutare la loro risposta emotiva nei confronti dei pazienti e, attraverso di essa, aiutarli nel cercare il senso del viaggio della vita e di concedere ciò che è necessario al sofferente e al morente.

Passando dal generale al particolare ci accorgiamo che, per voi professionisti dell’arte medica,
la possibilità dell’umanizzazione e della medicina narrativa si compie nei luoghi e nei contesti delle cure. E’ nelle strutture mediche e ospedaliere che per voi si apre questa meravigliosa opportunità.

Potremmo descrivere tre linee operative:

a) umanizzazione di conforto ambientale. L’attenzione alla realtà strutturale è di vitale importanza. È necessario ripensare costantemente agli spazi e agli ambienti di cura.
La qualità dei nostri spazi di cura deve rifarsi alla media abitativa della popolazione.
Si tratta di curare l’attrezzatura, l’adeguatezza degli spazi al vissuto relazionale, la pulizia, il vitto e la sua distribuzione, garantire l’orientamento, l’accoglienza, la privacy, dare contenuto ai tempi morti. Spazi commisurati ai bisogni di globalità della persona malata.

b) Umanizzazione soft che riguarda la componente immateriale della struttura organizzativa: si tratta della formazione del personale. L’articolo di Grant Making room for medical humanities evidenzia diverse ragioni per inserire le humanities nel percorso di formazione accademica (14). Esse sono: la capacità di comprendere in modo più profondo la condizione dell’uomo; la possibilità di poter formare, nello studente, uno spirito critico capace di confrontarsi anche con altre discipline quali la filosofia, la giurisprudenza, l’economia, la storia dell’arte, la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la religione e la teologia; aver maggior considerazione e percezione delle differenze individuali che caratterizzano i pazienti.

c) Come terzo ambito il Dei Tos sottolinea l’umanizzazione per aree critiche ossia quelle aree che richiedono una particolare attenzione e cura negli interventi vista la particolare fragilità a cui la persona è esposta. Stiamo parlando del settore materno-infantile, il trattamento del dolore, la disabilità, il disagio psichico, l’area delle cure
intensive.

Credo, però, che l’umanizzazione della medicina non riguardi, come dicevo in apertura, solamente il paziente. Troppo spesso, a mio avviso, si considerano – come è giusto – le dimensioni emozionali e motivazionali dei pazienti: non dobbiamo dimenticarci, però, che anche il medico porta in sé, proprio in quanto persona, tali esigenze che, in una corretta via di umanizzazione, non possono essere assolutamente tralasciate o poste in secondo piano facendo del medico un superman o un cyborg tecnicizzato. Parliamo spesso di umanità del medico per il paziente, di attenzione alla persona del paziente, ai suoi bisogni emotivi, alle sue sensazioni – e questo va bene – ma, mi chiedo, al medico chi ci pensa? Non è forse anche lui parte della relazione che si instaura con il paziente? Il contesto socio-culturale ha condotto oggi a considerare la medicina come un’obbligazione di risultato e non più di mezzo e così il medico, il chirurgo si vedono investiti da livelli sovraumani di aspettativa in termini di successi; turni di lavoro insopportabili, costi da gestire, reazioni emotive dei pazienti, poco riposo con ciò che ne consegue, affaticamento psicologico, senso di solitudine. L’umanizzazione della medicina non deve considerare anche questo? Credo proprio di si, miei cari medici che vi trovate a gestire un mondo di cose che va dalla patologia, all’economia sanitaria, all’insufficienza di personale, di posti letto, solo per citarne alcuni.

Mi ha toccato profondamente la storia di un medico che scrive così:

“Recentemente mi è successo di dover sottoporre un mio caro amico a un intervento alquanto complesso. Medico, di 47 anni, marito e padre di figli piccoli, aveva scoperto all'improvviso, in pieno benessere, di essere gravemente ammalato: tumore maligno al pancreas. La sera prima dell'intervento, mentre me ne stavo tranquillo sul mio terrazzo, con in mano un bicchiere di vino bianco, ho pensato a lui che invece giaceva in un letto d'ospedale, solo con se stesso e con le sue paure, cosciente della sua drammatica situazione e della sua prognosi. Gli ho mandato un sms: dormi tranquillo, gli ho scritto. Ho molte sensazioni positive per domani. Lui mi ha risposto che, in quella notte difficile, quel messaggio era stato importante. Eppure, subito dopo, mi sono sentito svuotato di energia: lui ha 11 anni meno di me, e tra poco dovrò sottoporlo a un grosso intervento, e questa notte sarà solo con i suoi pensieri, e domani... Domani, invece, in sala operatoria, sarò solo io. E allora ho avuto bisogno di un supporto anch'io, e l'ho cercato in una dimensione collettiva. Ho scritto un post su Facebook per raccontare, per sollecitare una condivisione, per chiedere che tutti fossero così gentili di pensarci entrambi tra le 8 e le 12 del mattino seguente, orario dell'operazione. Sì, lo confesso: avevo bisogno di una tifoseria. Una debolezza? Forse. Ma quello che mi ha più colpito nelle centinaia di approvazioni e di commenti che mi sono piombati addosso, è il fatto che tutti apprezzassero quella "debolezza", quella richiesta di condivisione, quel mio bisogno di non sentirmi solo. Ho capito quanto sia importante aprire varchi nello schermo di sicurezza dietro il quale ci nascondiamo noi chirurghi. Sì, è importante far capire come dietro quello schermo ci siano persone sensibili e umanamente coinvolte, mentre maneggiano una vita. Far percepire questo ai pazienti non è un segno di "debolezza": è qualcosa che riesce a rimetterli dove devono stare, ovvero al centro della tua attenzione.
Da tempo ho scoperto quanto siano importanti certi gesti semplici che servono per accorciare le distanze, come il sedersi sul bordo letto del paziente, piuttosto che incombere in piedi al suo capezzale, toccargli le mani o l'alluce del piede, parlare e scherzare con loro. In un mondo dove la tecnologia sacralizza se stessa e dove la chirurgia è sempre più tecnologica, quei piccoli gesti producono effetti terapeutici importanti”. (15)

Torniamo così a quanto si diceva in apertura quando sottolineavamo che l’umanizzazione riguarda tutta la società; il sistema socio-sanitario è chiamato a tutelare non solo il paziente ma anche il medico per far si che tale professione possa essere condotta serenamente. È evidente che noi non possiamo cambiare il mondo ma credo che il nostro mondo possiamo cambiarlo un po’; se, così, da una parte non potremo cambiare la struttura socio-sanitaria, dall’altra potremo però creare, nei nostri posti di lavoro, dei luoghi in cui concederci un po’ di umanità. Penso al lavoro di equipe, così importante anche per la condivisione delle tensioni, delle fatiche. Penso alla comprensione e alla stima che si dovrebbe respirare tra colleghi. Penso a tutto ciò che possiamo portare nel nostro mondo lavorativo per far si che noi e gli altri si sentano protetti, al sicuro dai venti freddi che i reparti oggi vi propongono. Penso, inoltre, anche a percorsi personali di approfondimento, accompagnamento della vostra umanità.

Umanizzazione globale dunque: nelle strutture, nella formazione, nella relazione, nell’attenzione reciproca.

In chiusura desidero citarvi una frase di Robert Frost quando dice: “Due strade divergevano nel giallo bosco ed io, io scelsi la meno frequentata. E questo ha fatto la differenza”. (16)



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NOTE BIBLIOGRAFICHE ED ESPLICATIVE

1 Cfr. INTERNATIONAL GROUP LEADERS, The goals of medicine: setting new priorities in Hasting Center Report, 1996, 26, Suppl; s.8.

2 BENJAMIN WW., Healing by the fundamentals in New England Journal of Medicine, 1984, 311, pp. 595-597.

3 Cfr. GRANT V.J., Therapy of ‘the word’: new goals in teaching communication skills in Health Care Analysis, 1995, 3, pp. 71-74.

4 Cfr. Idem, Making room for medical humanities in Journal Medical Ethics: Medical Humanities, 2002, 28; pp. 45-48.

5 Cfr. VINCENT C., FURNHAM A., Why do patients turn to complementary medicine? An empirical study in British Journal of Clinical Psychology, 1996, 35, pp. 37-48.

6 Idem.

7 Cfr. JACKSON M., Medical humanities in medical education in Medical education, 1996, 35, pp. 395-396.

8 Cfr. DEI TOS G.A., Alla radice dei processi di umanizzazione nel sistema sanitario in Etica e umanizzazione delle cure, Atti del VI Congresso Nazionale S.I.B.C.E., Camposampiero, 5 maggio 2006, p. 25.

9 COLLIER J.A.B. et al., Fame, fortune, medicine and art in Oxford handbook of clinical specialties, 4 ed., Oxford, 1995, p. 413, (traduzione adattata dell’autore).

10 Cfr. DEI TOS, Op. cit., p. 26.

11 Cfr. SPAEMANN R., Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’, Editori Laterza, Bari, 2007.

12 DEI TOS, Op. cit., p. 28. (corsivo dell’autore).

13 Cfr. CHARON R., Narrative Medicine. A model for Empathy, Reflection, Profession and Trust, in JAMA, 2001, 286, 13, 1897-1902.

14 Cfr. GRANT, V.J., Making room for medical humanities in Journal of Medical Ethics: medical humanities, 2002, 28, pp. 45-48. Cfr. FIESCHI L. et al., Medical Humanities in healthcare education in Italy: a literature review in Ann. Ist. Sup. Sanità, 49, 2013, 1, pp. 56-64.

15 VITELLI C.E., Se la miglior terapia è l’umanizzazione in www.huffpost.com, 14 maggio 2013.

16 Citato da DEI TOS, Op.cit..
 
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view post Posted on 17/9/2020, 14:01

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Veramente l'unico post di questo forum che vale la pena leggere in pochi minuti è questo:

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Spiega la verità della religione Cattolica, come nasce e come spiega le proprie credenze. ,








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view post Posted on 23/9/2022, 07:12
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insomma tutto il resto è poco interessante :woot: :wacko:
 
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view post Posted on 10/3/2023, 08:52
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Peccato che tutti i forum sono destinati a morire perchè la massa cieca adesso non vuole più scrivere ma essere succube di TikTok e cose simili

pensate ragazzi non diventate schiavi di stupidi video che scorrono rubandovi il tempo e la vita
 
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view post Posted on 15/2/2024, 15:48
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Medicina! Mi piacerebbe studiare medicina! Ma pensate che si sia differenza tra un medico devoto e credente rispetto a un medico ateo? Pensate che il loro approccio possa essere differente verso chi ha bisogno di cure?
 
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